Dei caregivers

foto dal web

13 anni ieri. Da 13 anni Dolcezze è, a pieno titolo, una caregiver.

Dopo una banale caduta e un successivo ictus, il Genitore smise di essere il nonno aggiustatutto, autista, baby sitter, compagno di giochi e raccontatore di storie per diventare, con suo infinito dolore, un uomo fragile, incapace di parlare e di muoversi, dipendente in tutto. Il peggio del peggio per chi, per tutta la vita, era stato attivo, disponibile, sempre pronto. La Genitrice e il badante non coprivano tutte le necessità e occorreva essere sempre "in zona" in caso di bisogno. Allora è finita per Dolcezze la vita normale ed è cominciata quella di caregiver, che ancora dura visto che, nel frattempo, anche la Genitrice è crollata fisicamente e ha avuto bisogno di un'assistenza ancora più presente e continua.

Non è semplice capire questa esperienza se non la vivi.

E non si tratta tanto

del panico che ti prende a ogni squillo del telefono,

del terrore dei "giorni rossi" del calendario e dei giovedì pomeriggio, in cui la badante è libera,

della fine della domenica come giorno di riposo e giorno della famiglia e la sua trasformazione in giorno di assistenza full time,

dell'assenza delle vacanze,

della gestione amministrativa di due case,

delle visite e attese a patronati, specialisti, farmacie,

quanto

del senso di impotenza che ti assale quando tu, materialmente, non puoi fare nulla,

dell'amara consapevolezza che "può solo peggiorare", che, qualunque cosa tu possa inventarti, c'è solo un'unica destinazione,

del senso di incertezza, di precarietà, la mancanza di ogni progettualità che non sia il "qui e ora", perché già la mezza giornata è un obiettivo incerto,

del tormento del vedere la sofferenza di chi ami e non poterla eliminare.

Il caregiver ha un obiettivo limitato, quindi, e tutta la sua vita ruota attorno all'accudito. La sua famiglia, se ne ha una, o si adatta o soccombe. 

Un tempo esisteva una rete di solidarietà familiare e sociale che copriva le necessità e aiutava chi si trovava in condizioni di difficoltà. Oggi il caregiver è spesso solo e deve riuscire a conciliare lavoro, famiglia e gestione dell'assistito e ciò genera un carico mentale e fisico enorme. Sì, anche fisico, perché la generazione di Dolcezze deve affrontare la vecchiaia dei genitori in un'età in cui il corpo comincia a cedere e, per giunta, si deve continuare a lavorare, visto l'allontanamento progressivo dell'età pensionabile.

Dolcezze, in questi giorni rifletteva su questo: la Genitrice ha assistito entrambi i genitori, ma era casalinga, viveva con loro, aveva delle sorelle che, in caso di necessità, aiutavano ed era relativamente giovane. Dolcezze negli anni ha dovuto lasciare il lavoro, trasferirsi in un'altra casa, "abbandonare" marito e figli (e senza il loro supporto non ce l'avrebbe potuta fare). E ora, come una trottola, passa da scuola a casa all'ospedale in un ciclo continuo. E non ha più vent'anni. E le è stato detto che non potrà più gestire a casa la Genitrice, a meno di un miracolo.

Il traduttore di Google, impostato su latino (chissà come mai...) le ha tradotto caregivers con curantes. Le è sembrata una cosa bella: il caregiver è uno che cura, che si prende cura, ma ha anche bisogno di essere "curato" e sostenuto. 

Voi lo state facendo, leggendo i deliri di ore di veglia e di questo ringrazia chi è arrivato in fondo. Ma pensiamo e sosteniamo anche tutti gli altri, perché la categoria è sempre più diffusa e i piccoli gesti di affetto, come i fiori inaspettati di una classe oggi a Dolcezze, possono fare tanto.


Commenti

  1. mi hai messo davanti a una prospettiva tristemente reale: io ho 50 anni, sono figlia unica e lavoro full-time. Mi conforta che le alternative al caregiver-aggio sono tutte più brutte, quindi, onestamente, ben venga. Peraltro Marito è nella mia identica situazione, anche lui figlio unico. Quindi si farà, immagino, come si potrà

    Ti mando un abbraccio solidale. (scusa il neologismo, caregiver-aggio in effetti non si può sentire)

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  2. Ti capisco, ci sono passata, è durissima; sia fisicamente che emotivamente.

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  3. Curantes mi piace molto di più del vocabolo inglese. In italiano si usa anche curanti, oppure una perifrasi.
    Si sa che a un certo punto l'esito è quello, ma ecco, si vorebbe portarvi i propri cari tranquillamente, senza sofferenze, in un affievolirsi lento e sereno delle forze della vita. Si parla troppo poco del carico emotivo che questi lunghi addii impongono quasi sempre alle donne,ve questo moltiplica la fatica in tutti i sensi.
    Vi auguro forza e di riuscire a uscirne nel migliore dei modi. P.

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  4. Mi hai commossa perché io sono nella fase della conclusione, mia madre è morta .
    Però non ho avuto il carico che stai portando tu , lei era in una casa di cura, l'Alzheimer ha stroncato mio padre che ha preso la decisione più sofferta che si possa immaginare.
    Posso solo dirti che ti capisco e che devi andare avanti. Con Fede

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  5. Ti mando un abbraccio virtuale anche se non ti conosco, perché quella dei caregivers (ma quanto è più bello curantes???) è una situazione tremenda e ancora poco affrontata nella nostra società, ma che ti soffoca da dentro. Ti capisco, perché mia madre, figlia unica, ha sostenuto mia nonna degli anni fino alla sua dipartita nel 2010.
    Anche lei aveva il terrore delle domeniche (i giovedì pomeriggio alla fine passavano presto) e nelle ultime fasi c'era sempre bisogno di 2 persone perché da sola non ce la faceva.
    Ricordo i suoi rimanere a casa quando noi andavamo al mare, le rinunce, il telefono cellulare le poche volte che usciva che doveva essere sempre libero per le emergenze.
    Ricordo ancora che quando morì, sotto quel dispiacere immenso che può portare la morte di un genitore, c'era anche una sorta di consapevolezza di essere tornata libera, quasi un sollievo. E' tremendo ma estremamente vero. Perché come dici te, non c'è possibilità di miglioramente, si va solo verso un'unica strada.
    Anche questo fa parte della vita.
    Per questo ti abbraccio, non servirà a nulla ma ti capisco.

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