Dei libri dell'anno 79: Ognuno muore solo
Ho faticato molto a finire questo libro, e non perché non mi
prendesse, anzi: il problema è che mi prendeva troppo e mi riempiva di una tale
ansia che non potevo leggere più di un capitoletto alla volta.
Il motivo è che sapevo bene che la storia partiva da un
fatto storico: nella Germania nazista, negli anni della guerra, un’ordinaria
coppia di coniugi, dopo aver appreso della morte al fronte del figlio, comincia
a seminare per le strade di Berlino cartoline inneggianti alla ribellione
contro il Fuhrer. Contro di loro si scatena una vera e propria caccia all’uomo,
che durerà anni e che coinvolgerà tanti. Il loro gesto, sostanzialmente inutile
perché le cartoline venivano immediatamente consegnate alla polizia, è però il
segno del dissenso silenzioso di tanti tedeschi che, dopo la prima
ubriacatura hitleriana, avevano compreso la crudeltà del regime.
I protagonisti, Otto e Anna Quangel, non sono all’inizio
particolarmente simpatici: se lei è una donna sottomessa e schiacciata dalla
volontà del marito, lui è un uomo sgradevole sia nell’aspetto fisico (di lui
viene continuamente evidenziato il volto sgraziato), sia nel carattere,
taciturno, asociale, parsimonioso fino all’avarizia. La notizia della morte del
figlio e l’accusa della moglie che il “suo” Fuhrer ne fosse responsabile, lo
cambieranno nel profondo e, se apparentemente la vita dei due scorrerà come
prima, nel segreto i due realizzeranno la loro ribellione, titanica e
solitaria. Attorno alla loro vita si intrecceranno altre storie, di personaggi più
o meno collusi col regime, in una netta divisione fra buoni e cattivi. C’è,
però, anche tra i "cattivi" chi, dinanzi alle crudeltà e alle violenze del regime, si interroga
sul senso della propria esistenza e prende decisioni gravi ed importanti.
I due Quangel sanno che prima o poi verranno scoperti, sanno
che probabilmente li aspetta la morte, ma continuano imperterriti, perché
bisogna vivere e morire con dignità. La chiave del romanzo sta tutta nel
discorso dell’ultimo compagno di cella di Otto, un direttore d’orchestra che lo
educherà alla bellezza e alla musica, che, dinanzi al suo sconforto per non
aver raggiunto l’obiettivo di suscitare la ribellione contro il regime, conclude
così: “Perlomeno lei ha resistito al male. Non è diventato malvagio con gli
altri”. E sul valore della resistenza: “A noi sarà servita perché sentiremo di
esserci comportati fino alla fine in modo decente (…) ognuno di noi morrà solo,
ma non per questo siamo soli, non per questo moriamo inutilmente. A questo mondo
nulla accade inutilmente, e poiché combattiamo per la giustizia contro la forza
bruta, saremo noi i vincitori, alla fine”.
Questo messaggio finale dà il senso all’orrore, puntualmente documentato con un linguaggio apparentemente freddo e distaccato ma che, soprattutto nella parte finale, ti tiene attaccato alla pagina come e meglio che in un thriller.
Romanzo che, in tanto dolore, dà spazio, quasi inavvertitamente, ai sentimenti: all’amore coniugale, anche se è fatto di gesti apparentemente distanti, e a quello genitoriale, non sempre legato ad una maternità fisica. Ma è anche un romanzo di estremi, in cui famiglia è sì il mondo pieno di complicità di Otto e Anna e di Trudel e Karl, ma anche il luogo di un’educazione alla violenza e all’abuso che porta poi ad inevitabili conseguenze.
Da leggere, ma non in momenti di inquietudine e turbamento;
libro obbligato se si vuol conoscere un’altra Germania, ben diversa da quella
delle folle oceaniche inneggianti al Fuhrer.
Non conosco il romanzo di Fallada, ma sicuramente gli esempi di resistenza al Nazismo in Germania non mancarono. Ci fu il gruppo di studenti della Rosa Bianca. Il filosofo protestante Boenoffer (spero di aver scritto bene il nome) che mentre si trovava al sicuro, in Svizzera, tornò in Germania per condividere il destino dei suoi connazionali. E chissà quanti altri di cui non conosciamo il nome. La resistenza silenziosa e disarmata delle coscienze rette. La migliore.
RispondiEliminaInfatti
EliminaBizzarro perché non ho letto il romanzo ma ho visto un programma televisivo che raccontava questa vicenda dicendo che si trattava di una storia vera e che erano stati trovati persino i biglietti scritti dai due e i fascicoli della polizia che indagava su di loro. Per cui credevo che fosse una storia vera.
EliminaSi parla di « resistenza esistenziale » per definire una resistenza individuale che passa per il rifiuto e la conservazione di spazi di diniego alle imposizioni più marcate del regime. Se ne trova un esempio nel libro Point Lenana, una ricostruzione biografica riguardante un funzionario italiano che negli anni ‘30 scelse di sposare un’ebrea che amava e di trasferirsi in Africa.
Al di là questo, la migliore resistenza è quella che vince. I nazifascisti non se ne sarebbero andati se non fossero stati sotto minaccia delle armi. Altre resistenze possono essere eticamente (più) splendide, ma non giovano, malgrado la buona volontà. E forse la scelta di come resistere dipende più che dalla volontà dai mezzi che si hanno a disposizione.
Su Twitter è molto interessante la rassegna fatta dall’account Paroles des Compagnons de la libération. In uno o due cinguettii si riassume la vicenda di combattenti, spesso giovanissimi, della Resistenza francese. Sono vicende a volte picaresche, a volte tragiche, a volte insospettate. Molto interessanti sempre.
Dietrich Bonhoeffer......i nomi tedeschi mi fanno impazzire....
RispondiEliminaNon l' ho letto ma tempo fa ho visto il film "lettere da Berlino" tratto proprio da questo libro.
RispondiEliminaMi hanno parlato di questo film, ma ancora non l'ho visto
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