Dei libri dell'anno 87: Circe



Circe deve essere veramente una grande maga, se riesce ad ammaliare anche per interposta persona, tramite Madeline Miller che le dà voce. E la sua voce ti prende, ti conquista, ti trattiene e tu non riesci a staccarti dalle pagine. 

Qualche mese fa della stessa autrice avevo letto La canzone di Achille, bellissimo, ma Circe mi ha preso ancora di più, perché ogni libro arriva nel momento giusto e quando lo leggi trovi le risposte a quelle domande che neanche avevi espresso o la conferma dei tuoi pensieri più profondi e nascosti. Per questo, mentre tutti i recensori trovano bellissima la prima parte del romanzo e lenta la seconda, per me vale l'esatto contrario. 

Circe è una ninfa,  figlia di Elios e di Perseide, nipote di Oceano, ma già alla nascita si rivela "diversa" e, per questo, sarà sempre un'esclusa, pur vivendo nel palazzo divino. Circe è diversa non solo per la voce e i capelli striati, è diversa perché prova compassione. Quando Prometeo viene crudelmente punito, è l'unica a rivolgergli la parola e fornirgli conforto, apprendendo da lui quelle informazioni sui mortali che gli dei le negano. Quando gli chiede come gli uomini possano sopportare la loro debolezza e la loro mortalità e perché lui, un titano, abbia disubbidito a Zeus, nonostante immaginasse la punizione,  ottiene le risposte che poi caratterizzeranno tutta la sua vita: "Fanno del loro meglio" e "Non tutti gli dei devono per forza essere uguali".

Circe cresce e si innamora e l'amore le fa intuire il suo potere, ma il suo incantesimo non le dà quello che cerca, anzi, la rende ancora di più oggetto di derisione: allora usa ancora la magia, con conseguenze terribili che la costringeranno ad un esilio eterno sull'isola di Eea. Qui diventerà, col lavoro e la volontà, sempre più forte e potente e, offesa nella propria carne, rivelerà all'esterno ciò che ogni uomo è nel suo interno. Qui la raggiungerà Odisseo, l'unico a resistere, grazie alla sua astuzia e all'aiuto degli dei, al sortilegio che ha trasformato i suoi compagni in porci. L'eroe di Itaca riuscirà a scalfire le sue difese e, alla sua partenza, inconsapevolmente le lascerà un dono: un figlio, Telegono. A questo punto il romanzo prende una piega inattesa: Circe non è la dea che partorisce in un attimo e si rialza più bella di prima, non ha nutrici che curino il suo bambino perfetto, anzi, non ha proprio un bambino perfetto, ma un infante urlante e scatenato, che non le dà un attimo di requie col suo pianto disperato prima e la sua furia dopo. E qui la dea diventa solo una madre: stanca per la fatica,  timorosa di sbagliare, spaventata per la mortalità del figlio, che cercherà di difendere da tutto e da tutti. Diventa una leonessa per respingere Atena, crea una bolla che protegga Telegono e gli impedisca di correre rischi e, come ogni madre, è costretta ad accettare il suo fallimento: non è possibile togliere tutti gli ostacoli dinanzi a tuo figlio, non è possibile trattenerlo, ma anzi devi lasciarlo andare.

Questa parte del romanzo rivela una Circe molto umana, che ha scelto di essere una dea diversa. Ella conosce la mortalità e comprende che, forse, non è poi tanto male, perché, nonostante le difficoltà e la giusta paura, vivere è "nuotare nella corrente, camminare sulla terra e sentirne il tocco sotto i piedi", mentre l'immortalità degli dei è solo immutabilità e non permette di trattenere nulla tra le mani.

Il romanzo, pur attingendo a piene mani al mito, lo travalica con una presentazione di Odisseo che capovolge la visione tradizionale: chi è veramente l'eroe? Fino a che punto ci si può spingere per raggiungere i propri obiettivi? E poi, con Telemaco: fino a che punto il sangue, umano o divino, può condizionare la nostra vita? Perché, alla fine, noi siamo chi scegliamo di essere.

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